Note sul lavoro di Marica Moro

In una fiaba di Hans Christian Andersen è-come spesso accade-un bambino a svelare la stupidità e al contempo la falsità del mondo degli adulti, a rivelare all’imperatore che il suo sarto di fiducia non gli confeziona preziosi abiti, ma lo manda in giro nudo. Tutti lo sanno, ma nessuno ha il coraggio di dirlo. Non è questo il luogo per parlare del valore metaforico delle fiabe.
Basti in tal senso pensare alla lettura che di tale argomento hanno fornito, nel corso degli anni, Vladimir Propp o Roger Caillois.

Ma è qui il luogo per provare a sottolineare, a fare chiarezza sul ruolo dell’artista nella società, in cui si trova a vivere. Artista che è spesso paragonabile, per l’autenticità della sua riflessione sul mondo, al bambino della favola[1], che riesce, con la necessaria freschezza intellettuale, a prendere in esame problematiche complesse, per cercare di offrire, non tanto delle risposte, ma nuove domande, capaci di mettere in crisi quanto è dato per scontato.

Così il lavoro di Marica Moro sul tema della genetica, che non offre una visione di taglio scientifico, né tanto meno si propone di offrire delle risposte.
Si limita-ma è tutt’altro che un limitarsi-a offrire nuovi punti di vista in grado di innescare diversi meccanismi di pensiero.
Questa potrebbe definirsi come il terzo movimento di un’articolata riflessione sul tema della serra intitolata Greenhouse.
Riflessione che Marica Moro ha avviato già da un paio di anni, con la collaborazione del sound designer Mauro Lupone, che ha realizzato una sorta di colonna sonora del lavoro, attraverso suoni di derivazione naturale, ma anche artificiale.
Il primo tassello è costituito da un film di videoanimazione, presentato all’interno dello stand del MAPP, Museo Arte Paolo Pini, nel corso del Miart, a Milano, nel 2007. Sulla parete era l’installazione In serra, composta da vasi di resina pigmentata, realizzata con la collaborazione di alcuni pazienti della struttura sanitaria psichiatrica. Moro ha qui innescato un meccanismo al quale potevano prendere parte persone avulse dal contesto artistico.

Ma non si è trattato di un intervento di arte terapia, quanto piuttosto, con un termine oggi abusato e un po’ troppo di moda, di un!azione di arte pubblica, in cui Moro ha coinvolto, appunto, il pubblico.
Il progetto ha trovato, quindi, un doppio sviluppo, a San Fedele Intelvi[2] e a Vespolate[3]: un secondo movimento strettamente collegato al primo in cui ha fissato a parete, collocati all’interno di semisfere, alcuni frames, ricavati dalla videoanimazione del 2007.
Moro non si è, tuttavia, limitata a bloccare le immagini: le stesse sono state rielaborate una a una così da dare vita a singole opere uniche, in cui è determinante anche la componente pittorica.

Una presa di posizione la sua nei confronti della facilità della tecnologia, una situazione dalla quale Moro ha preso le opportune distanze.
A Dieci Due Milano, invece, l’artista presenta un!installazione composta da alcuni tavoli di ferro sui quali sono dei vasi di resina. Nel progetto un ruolo determinante è svolto dall’acqua, fonte di vita: «L’acqua è l’elemento che maggiormente rimanda al concetto di genesi, crescita e trasformazione: nei miei lavori è molto importante il rapporto tra il mondo cosmico-naturale e il ciclo vitale dell’essere umano»[4].”
Il lavoro, come già detto, è profondamente legato al nostro tempo, in cui il tema della modificazione genetica è all’ordine del giorno.
L’idea prende vita in un particolare momento in cui in Italia si discute di fecondazione assistita e un referendum su questo argomento è andato deserto (2005). Ancora una volta un!occasione per non approfondire, per non comprendere, per rimanere in superficie, senza cogliere l’importanza del dibattito.

Il ruolo dell’artista è arrivare alle cose tramite un cammino diverso rispetto a quello della cronaca. In tal senso Marica Moro si è posta il problema di quello che resta. Ha pensato agli embrioni rimasti in un limbo di sospensione, che mai saranno coltivati.
Colpita dalla posizione della chiesa cattolica, assolutamente contraria alla sperimentazione e allo stesso tempo indifferente nei confronti dei semi rimasti congelati, dai quali mai nascerà la vita.

L’installazione presenta piccoli vasi, che rimandano all’immaginario di vaso, di terracotta rossiccia, quello che i disegnano i bambini e quello che sta sui nostri balconi con gerani e petunie.
In alcuni di essi si sono sviluppati piccoli pupazzi antropomorfi, bambini, in altri i semi sono rimasti nel vaso a morire. In un’apparente atmosfera giocosa cala un silenzio di morte.

E dunque che fine faranno gli embrioni congelati? Questa la domanda che sottende a tutto il lavoro.
Il teatro dell’azione, della proposizione della sperimentazione genetica è una sorta di serra. Come se Moro avesse riassunto, condotto all’essenzialità, con dei vasi provetta,  l’atmosfera del laboratorio, che normalmente si pensa -e forse è- asettica e fredda, e che qui è, invece, venata da un tepore che ci riporta a un senso di umanità.
Quello qui in mostra è un lavoro di tematica sociale, in cui l’artista si dichiara, entra a fare parte del dibattito. In realtà un dibattito ancora tutto da sviluppare su una tematica più che mai cara al mondo femminile, ancora una volta vittima del sistema, oggetto di decisioni prese da altri, il più delle volte maschi.

Attraverso un lavoro di questo tipo non ci si trova semplicemente di fronte a una presa d’atto. Marica Moro va oltre, cerca di smuovere le cose, di cercare a sua volta di animare il dibattito con nuove prese di posizione. Sottolinea le contraddizioni della nostra società, di un fanatismo religioso, che non riesce a trovare una posizione equilibrata che tenga conto, certo, di problemi di natura etica, ma anche dell’incalzante progresso scientifico, delle nuove scoperte, delle nuove esigenze.

Il suo non è solo un lavoro sulla vita in senso ampio, o meglio è un lavoro sulla vita strettamente connesso con il tempo storico nel quale viene proposto.
Un lavoro in cui è sottolineata e ribadita l’idea di trasformazione, di passaggio dalla condizione vegetale a quella animale e quindi umana. In tutto questo è una puntuale riflessione sul linguaggio dell’espressione artistica: dall’animazione video, alla pittura, alla scultura, all’installazione per coglierne e sottolinearne il mutamento.
Un lavoro, quello di Marica Moro, in cui contenuto e forma espressiva vanno nella stessa direzione, quella del superamento di una visione meramente superficiale delle cose, per cogliere, con la leggerezza che è dell’arte, la complessa essenza dei fenomeni.

Angela Madesani

 

[1] La favola citata potrebbe essere letta anche in altro senso in relazione ad alcune situazioni artistiche contemporanee.
[2] Mostra personale di Marica Moro, a cura di Elena Di Raddo.
[3] All’interno di una mostra collettiva al Museo Malandra di Vespolate, appunto, curata da Maria Rosa Pividori e intitolata Donne fuori dal limite.
[4] Si tratta Intervista di un’affermazione di Marica Moro all’interno di un’intervista rilasciata ad Annalisa Portesi in occasione della mostra Come bolle di sapone, Spazio Starter, Milano, 2005.