Altri incontri, altri pensieri d’arte per questa terza avventura, abbozzata in una giornata del 2012, a Milano, nella fucina vulcanica di “Dvilivs”, architetto-artista-artigiano. Un sorprendente atelier-laboratorio che, al là di un portone hand-made con serpeggianti chiavistelli e mappe, svela la magia di un antro insospettato, un mondo di sapore medievale che nega le esasperazioni industriali forgiando, piallando e lavorando di malta, radicato nel mito nordico, condito di nomi latino-svedesi. Un mondo rivitalizzato dall’incessante fervore di “giovani di bottega” che, in jeans, attendono alla fabrica in continua evoluzione, a metà via tra lo spirito di una confraternita rinascimental-esoterica, gli ideali di una comune sessantottina e l’organizzazione manageriale di una società con workshop in Italia e in Svezia, vendite via Internet e blog. Come nella più decantata esperienza del modernismo novecentesco, depositario aggiornato delle ottocentesche Arts and Crafts, nulla è lasciato al caso, ma tutto ostinatamente risolto col medesimo segno “fortiano”.
E sono dunque sedie, tavoli, scaffali, scale, dinoccolati cavalli su altissime palafitte, scheletri di animali preistorici, adunchi arti meccanici, fenici risorte dal fuoco ad accogliere il visitatore che, di passaggio in passaggio, si ritrova su passerelle da Indiana Jones a raggiungere il ventre-sauna di un equino da fiaba.
Duilio Forte, dunque, porta in Galleria d’Arte Moderna il vitalismo mitico, e persino romantico, di un mondo primordiale evocato nella sua essenza di simboli maschi, risposta contemporanea alla violenza melodrammatica dei grandi quadri storici che compongono un aspetto delle collezioni ottocentesche esposte.
L’artista sciorina un repertorio grifagno – talvolta quasi un memento mori ironico quanto macabro in corpi ischeletriti – tra dipinti, sculture, soffitti e pilastri della villa, incastrando corvi e sotterranei di gotica atmosfera accanto agli inquieti ritratti dal vero di Nicolò Paganini, mentre una freccia, sbucata all’improvviso dai secoli passati, giustizia il progresso trafiggendo la locomotiva della Via ferrata di Tammar Luxoro (1870) dipinta nella turbata rivisitazione che il giovane contemporaneo restituisce dell’antica tela, scegliendola tra le pochissime immagini che in Galleria celebrano l’avvento del motore.
Al primordio torna pure Marica Moro: lo fa con fiducia e ottimismo, con modi ancor più radicali e non scordando la sua natura di donna. Punta alle origini della vita accogliendo nei gorghi graffiati sulle tele, nelle resine, nelle installazioni, nei vasi-utero, l’elemento dell’acqua, la sua positiva energia femminile, la sua capacità di generare vita umana e vegetale, vera e artificiale. Acqua, terra, semi, sole. E quindi vasi da cui sorgono “s-foglie” urbane o ectoplasmiche sagome di esseri, trasparenti come meduse e solide come pietra; e quindi rami metallici da cui piovono decine di foglie colorate, leggere ricreate nelle resine.
Il dialogo con le opere del museo, in quasi tutte le sale, è immediato. E’ un museo “liquido”, una villa circondata dai rivi che scendono al mare dalla collina di Sant’Ilario, e ricco di opere in cui l’acqua abbraccia e vincola l’Italia in nazione unita nel dipinto di Theodor Tetar van Elven; è inquieto elemento di tele screziate di romanticismo tra Caffi, Bossoli e Beccaria; entra nei virtuosismi pittorici di magistrali en plein air di Rayper, D’Andrade e Avendaño; é spumoso mistero simbolista in Mariani; è sinfonia di sinestetici arrangiamenti cromatici in un Nomellini wagneriano; è tassello colorato immerso in una solennità solare, in Discovolo e Dodero; entra copiosa nell’impasto della sublime terracotta di Martini; è protagonista assoluta e sinonimo di fecondità di una donna-terra nelle figure e nei rigagnoli madreperlacei di Cambellotti; si confonde col cielo e svapora in aria colorata in Guerello; è implicito medium in cui galleggiano i calamari-fiori bronzei di Maine; è tragedia rossa di sangue nella mattanza di Sassu.
Ma, soprattutto, al di là delle finestre dei musei del Levante – come potrà vedere chi, uscendo sulla grande terrazza della Galleria, si lascerà accogliere dalla seduta uterina del grande vaso di Marica – l’acqua è in quel vero orizzonte marino, che chiude il cerchio del percorso d’arte, amalgamandosi felicemente col vero cielo e con la vera terra di Nervi.
Maria Flora Giubilei