L’intervento artistico di Marica Moro all’interno dei padiglioni della Galleria d’Arte Moderna di Genova Nervi, assomiglia a quello di un floricoltore in procinto di eseguire le tipiche attività di mantenimento del giardino che prevedono travasi e sistemazioni degli oggetti animati da innestare nei vasi, che lei stessa ha preparato con molta devozione. Ma che cosa trapianta, di tanto diverso, Marica Moro dentro questi recipienti posizionati con cura in molti spazi espositivi dell’arte in Italia?
“Li Omini,” direbbe Leonardo nella sua lingua rinascimentale. Si, viene da chiedere, … ma quali uomini?
Quelli di oggi, frenetici e incalzanti, trotterellanti al ritmo del denaro e dall’artificialità del vivere quotidiano nei nuovi contenitori alti e trasparenti che sfidano il cielo, assunti a simbolo della modernità? Oppure “Li Omini” immaginati e letti nei racconti antichi, capaci di coltivare la terra, erigere cattedrali e piramidi, scrivere Bucoliche e Divine Commedie, che noi, gente del terzo millennio, crediamo siano esistiti solo nelle leggende, e nelle storie raccontate dai nostri padri.
La produzione di Marica Moro è difatti incentrata sulla riscoperta di una tipologia della razza umana, molto più incline a svilupparsi a contatto con la terra e a rispettarne le virtù, e a considerare che è attraverso di essa che traggono alimenti tutti gli esseri viventi.
E’ un’avventura da laboratorio questa, non certo da paragonarsi a quelle che oggi la genetica ci propina in tutti i modi, ma affine, invece, a quei procedimenti dell’arte che, attraverso metafore e giochi piacevoli, completano ragionamenti profondi e sintetizzano in immagini, perfettamente comprensibili, l’insieme delle deduzioni che altrimenti resterebbero disperse nei meandri delle analisi. Certo, in questo caso aiuta molto la ricerca effettuata per individuare i materiali idonei a illustrare questo tipo di rappresentazione che, coerentemente deve affiancare gli intenti espressi, e trovare gli ingredienti per rendere sensibile la comunicazione.
Tra gli altri la resina e i pigmenti colorati, lavorati per ottenere effetti plastici fluidi e in procinto di determinare nuove figuratività, rendono possibile la realizzazione di sculture suggestive per la capacità di restituire trasparenze e colori che ci guidano verso i territori della genesi e approdano nell’universo delle immagini fetali in cui gli embrioni assumono identità in divenire.
Un ritorno al futuro, descritto con poche figure di riferimento alternate in formati diversi e coniugazioni cromatiche sensuali, avvia logiche semplici per muovere gli idiomi degli archetipi sedati nell’inconscio in attesa di essere restituiti al mondo. Il pianeta vegetale di Marica Moro collega la poesia e lo studio dei corpi fisici, la terra e gli attributi dei suoi futuri ospiti.
I disegni, che preludono o completano le presentazioni delle sculture, evidenziano il rapporto progettuale dell’artefice con l’oggetto inventato e infondono l’idea che l’arte possa sostenere la creazione naturale solo accostandola a soluzioni derivate dagli stessi insegnamenti della natura.
E’ implicito in queste dinamiche del pensiero creativo il compito al femminile che l’artista si è assegnato, disponibile a svolgere il ruolo di procreatrice in quei processi lirici propensi a generare forme di vita consone alla difesa della Madre Terra o della Matrice Cosmica, attingendo a predisposizioni congenite. Un rapporto differente rispetto alle intenzioni degli artisti dei due secoli appena passati, perchè alla contemplazione della natura come fatto estetico, o davanti alla drammaticità dei grandi cambiamenti epocali inscenati nelle tele dell’epoca, qui l’arte si propone come soluzione, semplice programma di lavoro per la comprensione e la restaurazione di ciò che è stato trascurato dalla veemenza del passato.
Una nuova stagione che mescolando dolcemente la terra, tonificando rami, foglie ed esseri umani, reclama un ritorno alla semplicità e al candore.
Fortunato D’Amico